castello tramontano

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È il castello del potere e della riscossa, dell’oppressione e della ribellione, del conte e dei cittadini.

È il castello del potere e della riscossa, dell’oppressione e della ribellione, del conte e dei cittadini.

È l’ “Incompiuta” di Matera.
Tre possenti torrioni cilindrici costruiti sui quattro ipotizzati per dominare la città. È il castello del potere e della riscossa, dell’oppressione e della ribellione, del conte e dei cittadini.
È un castello che nel proprio nome conserva il ricordo di chi lo ha voluto costruire, ma che, nello stesso tempo, rimanda a chi ne ha deciso l’incompiutezza.

Fu voluto da Giovan Carlo Tramontano, Conte di Matera dal 1497, definito più mercante che cavaliere, non essendo di estrazione nobile, ma semplice maestro di zecca.
Il suo arrivo in città segnò anche la fine delle pretese dei materani di affidarsi al Regio Demanio ovvero di autogovernarsi con un Parlamento cittadino che dipendeva direttamente dal Re.
Nel progetto del Conte, il castello prendeva a riferimento i due castelli napoletani di Sant’Elmo e Castel Nuovo, il Maschio Angioino. 

L’omaggio che il Tramontano volle rendere alla corte vicereale spagnola gravò, però, sulle teste dei materani.
…ma la Matera dei primi anni del Cinquecento aveva sete di libertà e solo il versamento del sangue di coloro che la impedivano l’avrebbe calmata.

Ascoltiamo la cronaca di quello che successe attraverso il racconto del materano Francesco Paolo Volpe:
“Si narra, che [il Conte] informato di alcune corrispondenze amorose, che passavano tra le sue figliuole, ed alcuni giovani gentiluomini della Città, fortemente corrucciandosi, determinato avea la morte di questi ultimi: ma temendo, che una aperta violenza compromettesse la propria sicurezza, meditò d’ottenere l’intento con uno stratagemma”. Organizzò una battuta di caccia, invitando le sue vittime designate, facendo appostare lungo il percorso dei sicari.
“Il perfido disegno penetrato dalle donzelle, venne agli amanti svelato”.
Questi, già vicini al gruppo contrario al Conte, decisero di prevenirlo. “Comunicarono i loro progetti a parenti ed amici, e ben presto aumentarono il numero dei cospiratori”. Le riunioni si tennero “in un largo presso la Parrocchial chiesa di San Giovanni Battista nel Sasso Barisano, su di un masso indigeno […] denominato in dialetto volgare il pizzone del mal consiglio”. Nel frattempo il Conte gravò sui materani un suo debito di ventiquattromila ducati, scatenando ulteriormente l’ira del popolo. “[..] Avvertiti essi [congiurati] ch’era egli entrato nel Duomo, corsero ad impadronirsi delle alabarde, che continuamente lo scortavano, e che allora giacevano alle porte di esso; e con quelle alla mano v’entrarono e l’assalirono.

Accortosi egli a tempo delle loro intenzioni, non si smarrì […], si levò in piedi; impugnò la spada e da valente schermidor qual’era, si coprì in modo, che giunse a sortir illeso dalla Chiesa […]. Di lì fuggendo, tratto tratto s’arrestava a deviare i colpi delle picche, che minacciose se le incalzavano dietro. Egli avea disegno di raggiungere il Palagio dell’intimo suo amico Alfonso Ferraù, […] ed ivi mettersi in salvo. Ma la sua sorte era determinata. Il Palagio si trovò serrato, ed i cospiratori ebbero tutto l’agio di consumare il delitto”.

Quel luogo venne successivamente detto Via Riscatto, mentre nella Chiesa di San Giovanni Battista una lapide muraria ne ricorda l’accaduto. 

La volontà di lasciare incompiuta quest’opera, per alcuni materani, testimonia la caparbietà di una città che non ha mai voluto rinunciare alla propria libertà e alla propria storia, consapevole che in esse è racchiuso il seme distintivo della propria identità.

È l’ “Incompiuta” di Matera.
Tre possenti torrioni cilindrici costruiti sui quattro ipotizzati per dominare la città. È il castello del potere e della riscossa, dell’oppressione e della ribellione, del conte e dei cittadini.
È un castello che nel proprio nome conserva il ricordo di chi lo ha voluto costruire, ma che, nello stesso tempo, rimanda a chi ne ha deciso l’incompiutezza.

Fu voluto da Giovan Carlo Tramontano, Conte di Matera dal 1497, definito più mercante che cavaliere, non essendo di estrazione nobile, ma semplice maestro di zecca.
Il suo arrivo in città segnò anche la fine delle pretese dei materani di affidarsi al Regio Demanio ovvero di autogovernarsi con un Parlamento cittadino che dipendeva direttamente dal Re.
Nel progetto del Conte, il castello prendeva a riferimento i due castelli napoletani di Sant’Elmo e Castel Nuovo, il Maschio Angioino. 

L’omaggio che il Tramontano volle rendere alla corte vicereale spagnola gravò, però, sulle teste dei materani.
…ma la Matera dei primi anni del Cinquecento aveva sete di libertà e solo il versamento del sangue di coloro che la impedivano l’avrebbe calmata.

Ascoltiamo la cronaca di quello che successe attraverso il racconto del materano Francesco Paolo Volpe:
“Si narra, che [il Conte] informato di alcune corrispondenze amorose, che passavano tra le sue figliuole, ed alcuni giovani gentiluomini della Città, fortemente corrucciandosi, determinato avea la morte di questi ultimi: ma temendo, che una aperta violenza compromettesse la propria sicurezza, meditò d’ottenere l’intento con uno stratagemma”. Organizzò una battuta di caccia, invitando le sue vittime designate, facendo appostare lungo il percorso dei sicari.
“Il perfido disegno penetrato dalle donzelle, venne agli amanti svelato”.
Questi, già vicini al gruppo contrario al Conte, decisero di prevenirlo. “Comunicarono i loro progetti a parenti ed amici, e ben presto aumentarono il numero dei cospiratori”. Le riunioni si tennero “in un largo presso la Parrocchial chiesa di San Giovanni Battista nel Sasso Barisano, su di un masso indigeno […] denominato in dialetto volgare il pizzone del mal consiglio”. Nel frattempo il Conte gravò sui materani un suo debito di ventiquattromila ducati, scatenando ulteriormente l’ira del popolo. “[..] Avvertiti essi [congiurati] ch’era egli entrato nel Duomo, corsero ad impadronirsi delle alabarde, che continuamente lo scortavano, e che allora giacevano alle porte di esso; e con quelle alla mano v’entrarono e l’assalirono.

Accortosi egli a tempo delle loro intenzioni, non si smarrì […], si levò in piedi; impugnò la spada e da valente schermidor qual’era, si coprì in modo, che giunse a sortir illeso dalla Chiesa […]. Di lì fuggendo, tratto tratto s’arrestava a deviare i colpi delle picche, che minacciose se le incalzavano dietro. Egli avea disegno di raggiungere il Palagio dell’intimo suo amico Alfonso Ferraù, […] ed ivi mettersi in salvo. Ma la sua sorte era determinata. Il Palagio si trovò serrato, ed i cospiratori ebbero tutto l’agio di consumare il delitto”.

Quel luogo venne successivamente detto Via Riscatto, mentre nella Chiesa di San Giovanni Battista una lapide muraria ne ricorda l’accaduto. 

La volontà di lasciare incompiuta quest’opera, per alcuni materani, testimonia la caparbietà di una città che non ha mai voluto rinunciare alla propria libertà e alla propria storia, consapevole che in esse è racchiuso il seme distintivo della propria identità.

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